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Border Line

racconto ipertestuale di Miguel Angel García

 

alla prima pagina

                        Labirinti Ipertestuali Bologna 1999

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL CANYON

Una normale fila di case, un logoro nastro di asfalto, e poi l'ultimo marciapiede dell'America Latina. Mancava del tutto quel lato della strada. Dove l'occhio aspettava porte, muri e finestre c'era solo una rete metallica sfatta e malamente inclinata, in parte caduta all'indietro nella voragine, un burrone di argilla dura, intensamente gialla, dalla quale emergevano a forza ciuffi di un grigio-acciaio. Il pendio era seminato di rifiuti: bottiglie di birra, lattine di cocacola, buste di plastica semiaperte e bucate da cani randagi, da scoiattoli marroni del deserto, da zopilotes, ratti, coyotes, e quanta bestiaccia furtiva lei riesca a immaginare. Nel fondo imputridivano gli scheletri di varie automobili, un frigorifero con la porta aperta e alcuni televisori rotti mirando il cielo come occhi ciechi. Era el otro lado, il paradiso americano.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

"Vedi quella collinetta?" -mi disse Caronte, il "coyote" che attraversava tutti i giorni la linea. Segnalava un punto più alto sull'orlo opposto del burrone, a trecento metri circa. -"È là che parcheggiano le macchine della Migra, con le luci spente".

Molto prima che il sole avesse finito di scendere il fondo del canyon era completamente nero. -"Non ti fidare -spiegava Caronte a un salvadoregno smilzo e serio-; "hanno sensori infrarossi, quando avremo iniziato a passare si accenderanno dei fari di tipo militare lassù, in quell'altra altura; il canyon sarà più illuminato di uno shopping center.

Tu devi correre e correre, verso la collina dei migras, perché altrove non si può passare. È come nel football. Corriamo tutti, loro prendono uno, dieci, venti, e passano cento. Quelli che cadono riprovano domani".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era già notte. Dietro di noi, nell'altro marciapiede, le finestre si accendevano a intermittenza con i riflessi azzurri dei televisori. I ragazzi di pelle oscura, resa ancora più scura dall'ombra del cappello texano, e quegli altri più rumorosi e gesticolanti, con il berretto da baseball di traverso sulle chiome unte, che fino a

un'attimo prima passeggiavano noncuranti in qua e in là, si allineavano nella parte rovesciata della rete, a pochi centimetri della border line. Erano ormai una moltitudine nervosa e silenziosa. I coyotes andavano e tornavano lungo la linea di uomini, bisbigliando. Cresceva la tensione.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutti controllavamo guardinghi i pacchettini con il denaro (alcuni tastavano la cintura innaturalmente grossa o uno degli stivali) e i documenti, veri o falsi. -"Preparatevi", -bisbigliò il nostro coyote;- "quando vi dica 'ya' correte."

Afferrai convulsamente la busta di plastica nella quale avevo messo una camicia buona, una cravatta e un paio di scarpe di cuoio.

"Ya!", ascoltai, e uscii di corsa nel pendio, evitando ostacoli impensati, slittando sulle pietre e sulle lattine, perdendo l'equilibrio in avanti, mentre il ruzzolare dei miei vicini nella discesa argillosa levava nuvole di polvere e immondizie.

Rotolai nell'oscurità quasi in fondo al dirupo, dove l'argilla più umida succhiava le scarpe da tennis, e continuai senza controllo fino a cozzare contro i resti di un divano sventrato.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fu allora che si accesero i fari sulla collina, e lo stretto canyon diventò uno scenario irreale, e tuttavia giusto, come se fosse stato costruito per rappresentare quotidianamente questo dramma. La luce era intensissima, quasi solida; oggetti e persone, nonostante le ombre dure, sfumavano negli orli fino a perdere ogni forma.

Un'elicottero invisibile e assordante dietro il proprio proiettore, diceva con voce metallica e accento cubano: "USTEDES ESTÁN ILEGALMENTE EN EL TERRITORIO DE LOS ESTADOS UNIDOS DE AMÉRICA. VUELVAN ATRÁS INMEDIATAMENTE". -"Cabrones", gridò uno a poca distanza. Mi rialzai, e proseguii in avanti, al passo, zoppicando; avevo slogato di brutto una caviglia. L'ondata della corsa mi oltrepassò e mi lasciò dietro.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Molte persone si arrampicavano nella salita opposta, mobili macchie nere nella luce tanto bianca. I primi si affollavano intorno all'altura dove la migra aveva acceso nel frattempo i fari delle macchine, tracciando una stella di sbarre di luce contro il cielo nero. Si udirono spari, in aria supposi.

Non ce la facevo più. Trovai i resti di una Chevy abbastanza interi, aprii la portiera e sedetti pesantemente.

Attraverso il parabrezza mancante si vedeva movimento nella collina della Migra; vidi, o credetti di vedere, l'ombra di un poliziotto che colpiva con un bastone un clandestino, e lo buttava giù nel dirupo; vidi, o credetti di vedere, l'ombra di un'altro clandestino che caricava, come un bufalo imbizzarrito, i migras che facevano barriera.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fu allora, credo, che arrivò alla mia coscienza la percezione di uno scintillio verde nel sedile accanto della Chevy.

Il sedile non esisteva. C'era al suo posto un cubo metallico con una fila di leds verdi e rossi. Alla loro luce incerta vidi uno schermo, un interruttore e una tracking ball. Quando abbassai la levetta mi trovai davanti una mappa del canyon, con puntini neri che si muovevano ammassati verso l'estremo destro in alto. Nella parte inferiore dello schermo c'erano tre pulsanti simulati, che dicevano: right way, wrong way, random recalc. Mossi il cursore con la tracking ball su uno di essi, e feci click.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


RIGHT WAY

Intorno a me tutti gridavano in inglese e in spagnolo. Incespicai nelle gambe di una fila di persone distese bocconi a terra, coi polsi ammanettati dietro la schiena, mentre un gringo grasso e strabico mi buttava in malo modo contro il cofano di una macchina. Una ragazza robusta e sudata tirò le mie braccia sul metallo caldo, mentre il gringo grasso, con un bastone, mi dava colpetti secchi nella parte interna delle gambe, obbligandomi a separarle innaturalmente.

La ragazza in divisa, che doveva essere coreana, mi gridava "be quiet" mentre il grassone mi estraeva velocemente il pacchettino che avevo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

infilato sotto l'elastico degli slip, adiós dinero, nell'istante in cui la ragazza poggiava le tettine sulla mia schiena e mi torceva all'indietro le braccia, "click", imbrigliato il puledro, il grasso mise il piede sulle mie scarpe da tennis e, prendendomi dalle spalle, mi buttò a terra bocconi, accanto all'ultimo della fila.

Passò del tempo, forse mezz'ora. Qualcuno camminava dietro di noi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riuscii a guardare di sghembo: era un nero con una pila, che percorreva la fila fermandosi dietro ogni uomo, a ciascuno sollevava la testa prendendola dai capelli, e guardava alla luce la loro faccia, che confrontava con le carte che teneva in mano. Arrivò il mio turno. "Como te llamas, cabrón", mi disse. Io risposi. "Ah, il paraguaiano", commentò guardando le carte; "vieni da lontano.

Sceglie subito: México o Mister Morrison". -"Chi è mister Morrison?". -"E a te che te ne frega?".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RANDOM RECALC

La notte era sempre la notte, ma il canyon era ora una stradina stretta, lastricata a cubetti di porfido. Guardai il cielo. Un bagliore quasi impercettibile delineava una fila di palazzi, che si indovinavano in rovine. Nel silenzio i miei passi suonavano a vuoto. Entrai, muovendo delle assi mal inchiodate, nel palazzo più vicino. Camminavo su mattoni rotti, terra e legni scheggiati. Colpii la testa contro una trave obliqua. Mi inclinai, e vidi un tunnel in fondo al quale si percepiva una luce grigiastra. Uscii dal tunnel quasi contro un muro nero di cemento ruvido, molto alto. Sopra, oltre il muro, il cielo illuminato dai proiettori si vedeva attraverso il reticolo nero dei rotoli di filo spinato. Tastai la superficie di cemento, e trovai sulla mia sinistra una scala di legno.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salii per la scala. Udii passi pesanti in alto, e mi acquattai silenzioso. I passi si allontanarono, e continuai la salita. Quando arrivai alla parte superiore scoprii che il filo spinato era stato spostato e contorto fino a formare un passaggio. Mi infilai strisciando sul muro, e mi trovai in uno stretto corridoio, che finiva in guardiole a destra e a sinistra. Non si vedeva anima viva. Attraversai il corridoio. Dall'altra parte del muro non c'era scala. Era una larga strada asfaltata, che risplendeva di pioggia recente sotto la luce di un lampione dal fascio molto bianco, a circa cinquanta metri. Dietro un parco. Sopra la linea degli alberi, molto lontano, battevano le palpebre delle vivaci insegne pubblicitarie rosse e verdi. Non potevo rimanere lì. Passai il corpo dall'altra parte del muro, e rimasi appeso con le mani. Poi saltai, e caddi slogandomi una caviglia. Corsi zoppicando verso gli alberi, mentre dietro di me si accendeva un faro e gridavano in tedesco.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi sorprese più che la lingua il capirla. Fu un'attimo. Riuscii a vedere la luce folgorante degli spari mentre sentivo l'impatto violento nella schiena. Mi ritrovai nel sedile della Chevy, con la mano sopra la track ball. Nello schermo era apparsa la scritta: "Per rinfrescare lo scenario cliccare di nuovo su Random Recalc". Nella parte inferiore

c'erano sempre i tre bottoni simulati, che dicevano: right way, wrong way, random recalc. Mossi il cursore su uno di loro, e cliccai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

WRONG WAY

Schiacciai il pulsante virtuale, e non successe nulla. Uscii dalla macchina zoppicando, sedetti nel divano sventrato e chiusi gli occhi. Quando gli riaprii non c'erano più luci né movimento nel canyon. Sentii che fischiavano dalle tenebre. Chiesi "Chi è?" con voce incerta. A pochi centimentri dalla mia faccia qualcuno diede fuoco ad un rotolo di carta, spaventandomi a morte. La faccia che si vedeva era quella di un bambino, non poteva avere più di dieci anni. "Che fai tu qui?", dissi. Non mi rispose. Prese la mia mano e tirò.

Mi levai in piedi, la caviglia mi faceva ancora più male di prima. Cadevo quando il bambino, avvolto in una aureola di fetore indescrivibile, mi sorrese dalla cintura e mi fece poggiare sulla sua spalla. Non saprei dire quanto camminammo a passetti corti, incespicando nella notte buia.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ad un certo punto, sulla mia sinistra, vidi che l'oscurità acquisiva una testura diversa. Ci avvicinammo; era un'apertura a V nella parete del canyon. Il terreno saliva gradualmente; a metà strada vidi un bagliore nel cielo: era San Diego.

"Lasciami riposare un'attimo", dissi al bambino, e mi buttai su una roccia. Quando mi girai a guardare il bambino era sparito. Tastando in terra trovai un pezzo di tubo contorto che usai come stampella. Così arrivai camminando ad Otay. Albeggiava. Nella luce grigia la giardinetta si fermò cinquanta metri più avanti, e venne indietro stridendo col motore fino a mettersi al mio fianco. Riuscii a vedere confusamente che c'erano molte persone dentro, sedute sui sedili laterali. Dal finestrino venne fuori la testa di un nero che mi disse: "Scegli, o la Migra o Mr. Morrison?". Chi sarà questo Míster?, pensai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MR. MORRISON

La giardinetta si fermò accanto al poliziotto, o coyote, o quel che fosse in quel momento, che disse ossequiosamente diretto al finestrino "good night Mr. Morrison". Dalla parte del conducente uscì un grande Stetson bianco, sotto il quale c'era una faccia rossa su un collo di tacchino, nella quale i piccoli occhi azzurri producevano un notevole contrasto cromatico "I need another four men", disse con voce strascicata in falsetto.

Rimasero a lungo sfogliando le carte e discutendo, quasi su di me; alla fine un rotolo di dollari cambiò di mani, e mi ritrovai venduto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il fatto non era neanche troppo drammatico. Dalla giardinetta di Mr. Morrison scese un messicano oscuro, quasi nero, che prima di muoversi verso di noi poggiò il mitra nel parafango. Uno a uno ci caricarono, mentre gli altri ragazzi semiaddormentati si spostavano per farci posto.

Sei mesi lavorai là. Ho guadagnato tremila dollari, un cappello nuovo, un paio di stivali texani e una chamarra negra. Potevo tornare in Messico, o tentare fortuna a Los Angeles.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MEXICO

Ci misero seduti sempre ammanettati con le braccia dietro la schiena sui sedili laterali di una Combi delle grandi ruote molli, che dopo alcuni chilometri fuori strada imboccò la free way all'altezza di San Ysidro. Nella station ci lasciarono ore, albeggiava quando ci consegnarono ai poliziotti messicani, togliendoci le manette uno a uno. La giardinetta ci lasciò nel centro di Tijuana. -"Qualcuno di voi ha bisogno di un coyote?", disse il butterato di vaiolo. -"I nostri soldi sono quello che ci serve", rispose uno mentre scendevamo. -"Lavorate, se volete soldi", rispose il secondo poliziotto ridendo a crepapelle.

Il coyote era sempre nella calle Revolución, nel suo botteghino di pratiche, fotocopie e fax.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cinquanta metri più in là c'era la banca nella quale avevo lasciato la maggior parte dei miei dollari. Che fare? Potevo prelevare un po' più di soldi del conto, e pagarmi un servizio dei buoni, con mordida; o ritentare la corsa nel canyon, o rimanere in Messico e cercare lavoro, se riuscivo a mettere in ordine le mie carte. La terza era la più difficile, e l'ultima cosa da tentare. Scelsi una delle altre due.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SERVIZIO DEI BUONI

Mi restavano solo quattrocento dollari in banca, e adesso mi sentivo soffocare per l'odore della gente e i fumi della benzina. Eravamo sei nel portabagagli della Ford scalcagnata, e dire che quando entrava il terzo mi sembrava già impossibile. Io ero il quinto, tra due messicani, con un deodorante insopportabile quello davanti, e con una erezione quello di dietro. La fila di macchine avanzava lentamente tra Mexicali e Calexico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dall'interno sentivamo i passi e le voci dei venditori di souvenirs della frontiera, il tic tic dei tacchi delle puttane e le corse in sandali dei bambini. A volte si fermava un motore, un altro dava lunghe accelerate per mantenere carica la batteria, e i fumi della benzina si addensavano. Arrivò alla fine il nostro turno, passammo la linea, sentimmo la Ford accelerare tossicchiando, e ci urtammo nelle curve.

Uscimmo nella periferia di Calexico, nel parking di un pollo Kentucky, e respirammo forte l'aria fredda del deserto. Il coyote era nervoso. "Avete due possibilità", ci disse; "o entrate nel portabagagli della Mercury nuova che vedete là e vi lascio nell'autostazione di Los Angeles: vi costerà altri quattro verdi di cinquanta dollari, o aspettate a más luego nella caffetteria, e passa a prendervi Mr. Morrison. "Chi è Mister Morrison", chiesi, e nessuno mi rispose.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'AUTOSTAZIONE DI LOS ANGELES

A prima vista è un posto di Messico DF o di Bogotà. Gente di pelle oscura, come noi, circolava qui e là, senza scopo visibile, vagabondi, ladruncoli e disoccupati lottavano per le valigie dei passeggeri, mentre signorine passeggiavano e i loro angeli custodi controllavano la situazione. Decine di latini e qualche nero americano vendevano tacos, artigianato, fritture rancide e mille altre cose contro le pareti sporche,

scritte e sovrascritte in inglese e in spagnolo. Un europeo barbuto suonava il clarinetto, accanto a tre boliviani bassi con bombo e quenas, uno ed altri imperturbati dal cacofonico risultato. In mezzo alla confusione navigavano grandi autobus.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi avvicinai ai boliviani e dissi loro: "Scusate signori, mi potete dare alcune indicazioni?". "Guarda questo, da Santa Cruz è venuto". -"No, non sono camba, sono paraguaiano, di Asunción, e mi serve una stanzina e un lavoro". -"... e magari un visto di ingresso permanente?".

Ridemmo tutti. Poco più tardi, mentre innaffiavamo dei tacos di pollo con lattine di birra, i bolitas mi spiegarono: -"Qui si sopravvive, fratello, e basta. Molto latino, poco lavoro, la polizia che ti ruba, la migra che ti piglia. Va nel middle west, lontano dalla frontiera, a Saint Louis, a Chicago, a Cleveland". -"...e trovati una vedova, che il miglior immigrato è quello che sposa una del posto". Così è iniziata la mia avventura negli States.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SAINT LOUIS

Elisabeth Ramírez:

Mio padre era paraguaiano. Immigrò clandestinamente negli Stati Uniti nel 1988, e sposò mia madre pochi mesi dopo essere arrivato a Saint Louis. Mamma aveva un capannone industriale pieno di macchine ossidate, tubi e caldaie inservibili, che aveva ereditato dal nonno. L'idea di trasformarlo in una discoteca fu di papà. No, non credo che il suo progetto immigratorio fosse quello di diventare miliardario. Voleva vivere una vita, avere una seconda opportunità, perché la prima ad Asunción... Sì, so che dicono di lui che è il Caudillo del Multimedia; la sua fortuna è, vista di là, frutto dell'audacia, e vista da qui pura casualità. Come vedo io le cose le società sono come enormi tavole di mah-go, con file e file di cavità arrotondate, e le persone sono come piccole sfere che le riempiono.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli immigrati sono palline sciolte che rotolano, e cadono nella prima cavità che trovano vuota. Quando mio babbo arrivò a Saint Louis la multimedialità era qualcosa di completamente nuovo, c'erano cavità disponibili, e la sua pallina, rotolando, cadde in una. Se era un buco da miliardario fu pura fortuna; se riuscii a rimanerci era però talento.

va a quit

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CLEVELAND

Oswald Ramírez:

sí señor, mio padre era un immigrato paraguaiano que arrivò a Cleveland nel1988, con una mano dietro e l'altra davanti, se mi permette l'espressione. Questa casetta che vede lei dietro di me è il frutto di quarant'anni di lavoro onesto del mio vecchio, a chi rispettano tutti gli hispanos, da qui al Lake. Sí señor, è vero che arrivò in America come clandestino, però solo perché a quei tempi non davano visti a sufficienza. Non era sheet come questi dirty manciuriani e mongoli che invadono oggi il quartiere, e che vengono qui solo per vagabondare e rubare. Non è colpa loro, certo; la questione è genetica, poveretti. Sí señor, abbiamo avuto fortuna nel nascere in una razza superiore, come la razza latina.

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CHICAGO

John Fat Ramírez:

aveva la musica nel sangue il mio vecchio. Le domeniche mattina, quando non aveva turno nella fonderia, si trovava con i suoi amici nel garage di casa, e si mettevano a suonare. I paraguaiani erano solo due: lui con il suo violino, e don Miguel con l'arpa; partecipavano anche un chitarrista peruviano, e un percussionista di Trinidad che era stato professionista. La cosa cominciò a bollire quando si aggiunsero due vicini: Kulachovsky, un argentino che suonava il sax, e Khan, un indio che amava il sitar. Le guarañas, i valsesitos, le polkas e i chamamés diventarono altra cosa. Io non ho inventato niente. Il sound della Lat Music nacque in quel garage, non ho fatto altro che capirlo.

va a quit

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

QUIT

Allentai la cinghia sotto il mento e mi tolsi il casco VR. Intorno a me continuava la colorata confusione dello Stand della Razza. "Che faccia, uomo!", mi disse Monica ridendo, con la bocca piena di zucchero filato."-Non rompere, bambina", risposi. "Da oggi in avanti prometto che ascolterò con più attenzione le stronzate di mio nonno". Cinque minuti più tardi, nello stand del Fax Sex, avevo dimenticato tutto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mappa dell'ipertesto

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Note

Il coyote è un cane spelacchiato, sbilenco, sornione, disperato, intelligente. Ama tanto la spazzatura che viene da pensare che prima della fondazione di Los Angeles la sua vita era priva di senso. Tutti gli animali del deserto amano le discariche, tranne forse i serpenti a sonagli. Incluse le industriose colonie degli scoiattoli del deserto, che prolungano fino ai secchi della spazzatura le loro gallerie sotterranee, e i maestosi zopilotes, che volano sui canyon senza muovere le ali con un occhio ai rimasugli di hamburger.

Il coyote è inoltre il "passeur", il contrabbandiere di uomini. È una metafora insultante, perché l'associa a chi mangia carogne (il coyote umano approfitta dei poveracci), ma anche elogiativa, perché il coyote è un animale furbissimo, una volpe dei deserti americani. Il coyote a due piedi è infatti odiato e amato. Odiato per i suoi abusi e mancanza di scrupoli, amato perché la sua furbizia riesce a superare tutte le barriere, anche quelle elettroniche. Il coyote umano è un personaggio ambiguo; i suoi strumenti principali sono, non il coraggio della trasgressione, ma la corruzione e la soffiata. Tra "migra" e "coyote" c'è quasi una differenza di gradazione, sono ruoli dello stesso sistema, che include anche il padroncino californiano famelico di braccia e il politico messicano famelico di bustarelle.

 

(el otro lado = l'altro lato) È un concetto fondamentale nella cultura della border line. L'altro lato è una diversità organica e permanente, nel contempo quotidiana e familiare. Dal punto di vista messicano si va all'altro lato per fare shopping, per festeggiare a Las Vegas, per rimorchiare ragazze a Los Angeles, per lavorare, per usufruire di un servizio postale funzionante, per emergere dalla mediocrità e conquistare la metropoli (quest'ultimo è solo un sogno).

 

Migra: È il nome popolare del corpo di polizia specializzato in immigrazione negli Stati Uniti. Opera nelle frontiere e nei centri urbani dove ci sono numerosi stranieri. Si usa anche per i singoli individui arruolati nell'istituzione.

 

Shopping Center: Centro culturale cittadino della regione californiana, a nord e a sud della linea. Le famigliole vanno a passeggiare le domeniche, e i perdigiorno vi dimorano, vigilantes permettendo. Non fare quel gesto di sufficienza, lettore europeo; anche i centri storici delle vostre città d'arte sono shopping center, creati qualche secolo prima.

 

Football: Football americano, non quello soccer che si gioca in Europa. È una filosofia, come si vede, anche di lotta.

 

Televisori: La società pluriculturale si realizza prima come figurazione virtuale, nella televisione. Vi hanno fregato, amici razzisti. Avete perso la vostra guerra tanto tempo fa, nell'immaginario collettivo. Quel che avversate l'avete già dentro, fa parte costitutiva delle vostre personalità. Il negro, il latino, l'arabo, il cinese popolavano i vostri sogni, prima di trovarvisi accanto nella fermata dell'autobus. La vostra identità culturale è piena di noi.

 

Pacchettino: L'equipaggiamento dell'immigrante moderno include sempre un foglio di plastica legato con un elastico, all'interno del quale si custodiscono il denaro e i documenti. Il portafoglio è meglio portarlo semivuoto, con un po' di spiccioli e qualche fotografia: è quello che prendono subito poliziotti e ladri. Le varianti tipo cintura con doppio fondo, o astuccio negli stivali vanno meglio, ma hanno l'inconveniente di non essere spostabili ad un'altra parte del corpo, o inseriti velocemente in un nascondiglio di fortuna.

 

Busta di plastica: Elemento centrale dell'equipaggiamento dell'immigrante moderno. La valigia di cartone legata con lo spago era il simbolo di un'emigrazione passiva, subita. La busta di plastica denota libertà, mobilità, rischio. Può essere buttata via e sostituita dappertutto. È il lontano discendente di un'invenzione degli emigranti italiani: la lingiera, (dal lingier del dialetto lumbard, credo) involto fatto con una coperta nel quale i braccianti emigranti riponevano la propria roba.

 

Canyon: Descrive da un burrone ad una vera e propria vallata stretta. Viene dallo spagnolo "cañón", una parola multiuso che serve per parlare appunto di una vallata stretta, ma anche della canna di un arma di fuoco o di un cannone. Siccome nel inglese non esiste la "ñ" (che suona come l'italiano "gn") è stato trasposto in "ny", addolcendo il suono.

 

Accento cubano: La "migra" recluta una parte importante dei suoi quadri nelle comunità straniere presenti negli Usa. Preferisce utilizzare cubani ed altri caraibici nella frontiera con il Messico perché parlano lo spagnolo, e non sono troppo vincolati culturalmente ai migranti messicani e centroamericani. I nordamericani, tra i loro tanti difetti, non hanno la smania degli europei per associare il potere, ogni genere di potere, anche il più piccolo, con la etnia nazionalmente dominante.

 

Cabrones: "Cabrones" è il plurale di "cabrón" (caprone), un sostituto del soggetto piuttosto duro, e tuttavia domesticato dall'uso. Non cadde dalle labbra degli ispano-parlanti dell'America del nord, centrale e caraibica. Sanno utilizzarlo anche gli automobilisti di lingua inglese del sudovest.

 

Led: Come si fa a sapere se un apparecchio elettronico è vivo senza i leds? Quelle lucine di colori sono il battito del cuore degli esseri a circuito.

 

Track ball: Era una novità nel 1988; mouse al rovescio, è una sferina incastonata in una base, che permette di muovere un cursore sullo schermo del computer. Ha due pulsanti con i quali è possibile, tra l'altro, "cliccare", cioè scegliere.

 

Gringo: Nel castigliano arcaico "gringo" significava semplicemente "straniero". Nei paesi dell'area centroamericana e caraibica è diventato virtualmente sinonimo di "cittadino degli Usa" (quel che loro stessi con presunzione, e gli europei con confusione, dicono "americano").

Nell'America andina "gringo" è sinonimo di "bianco". Nell'Argentina (il che è indicativo della nazionalità prevalente nell'immigrazione) "gringo" significa "italiano". Nel Messico c'è una barzelletta, trasformata dall'ignoranza in nozione corrente, che fa discendere "gringo" dall'inglese sgrammaticato "green go", che starebbe per "giacche verdi tornate a casa", per il colore della divisa. Inattendibile.

 

Adiós dinero: (addio denaro) La polizia di frontiera ruba, quella nordamericana e quella messicana. Ogni tanto c'è uno scandalo sui giornali, che finisce presto in nulla. I clandestini sono non persone, e in quanto tali bottino libero.

 

Lontano: L'ambito europeo crea una particolare forma di miopia geografica. L'America del sud è molto distante dall'America del nord. Tra Asunción del Paraguay e Los Angeles la distanza è pari a quella tra Amsterdam (Paesi Bassi) e Johannesburg (Sudafrica), o tra Roma (Italia) e Hanoi (Vietnam).

 

Poliziotti messicani: I poliziotti di Tijuana sono paciosi, corrotti, trasandati, violenti con i deboli e servili con i forti, come nel cliché classico del mestiere. Guadagnano molto poco, e si trovano impigliati in giri molto più grandi di loro. I "forti" sono frequentemente trafficanti internazionali di droga, mafiosi di New York in ritiro spirituale, agenti del mercato dei trapianti, managers del commercio di braccianti o di prostitute. Io non li biasimo, ma nemmeno amo frequentarli.

 

Tijuana: Città messicana di un milione circa di abitanti, incastonata tra la frontiera Usa e il Pacifico. Ha una propaggine in territorio Usa, San Ysidro, e un rapporto molto stretto con San Diego. Un tempo capitale del gioco e del contrabbando di alcool, oggi Tijuana è una città industriale, che vive delle "maquiladoras" (industrie nordamericane e giapponesi la cui produzione è quasi interamente esportata negli Stati Uniti). Conserva un pezzo di centro storico vuotato al vizio, ad uso e consumo dei vicini "del otro lado", in genere di una ingenuità terrificante.

 

Calle Revolución: La rivoluzione è sempre presente nel nome delle strade e piazze messicane, il che è abbastanza logico in un popolo tanto conservatore in politica. La via Revolución di Tijuana attraversa la città, ed è sede di bottegucce come quella citata.

 

Mordida: Pizzo, tangente, bustarella in versione messicana. Nell'immigrazione corre in abbondanza, dall'una e dall'altra parte della linea. La corruzione nell'America del Nord è democratica e di massa, non elitaria come quella europea. È una proiezione del mercato, e non della clientela. Perfino nei rapporti normali tra privati cittadini si "vende" l'informazione, la presentazione, il favore, l'indulgenza. Bisogna saperlo fare. Il poliziotto messicano o "americano" è una persona orgogliosa, piena di sé. Se sospetta il verdone come una mancia (e l'europeo tende indefettibilmente a interpretare in questo modo la corruzione) e non come un libero tratto tra eguali si offenderà come una iena, con le conseguenze prevedibili per il malcapitato.

 

Mexicali e Calexico: Sono le due metà di una stessa città, nata recentemente dal boom del cotone nella valle del fiume Colorado (sì, quello del canyon). Con dubbia immaginazione, la città messicana si chiama Mexi (Mexico) cali (California), e quella Usa si chiama Cal (California) exico (Mexico). Fa un caldo boia, e c'è la migliore cucina cinese di tutto l'emisfero occidentale.

 

Pollo Kentucky: La Kentucky Fried Chicken è una delle numerose catene di ristoranti popolari degli Stati Uniti, "pollo Kentucky" in spanglish. Roba saporita e monotona, adatta per fegati tritatutto. Il riferimento al pollo è anche un gioco di parole. "Polli" sono chiamate le vittime/utenti dei "coyotes".

 

Los Angeles:
8,2 milioni di abitanti, sparsi in una cinquantina di centri urbani collegati da due autostrade parallele alla costa, e contrasti da riempire un volumone. E' oltre tante altre cose la più settentrionale delle città latinoamericane, con non meno di 3 milioni di "latini".

 

Vendevano: Dove c'è immigrazione ci sono mercati spontanei e informali all'aperto. Il shopping center e l'ambulante sono i poli della civiltà, nel Rinascimento italiano come nel mondo di oggi. L'amministratore saggio li stimola e organizza: la società umana è scambio di beni, di servizi e di messaggi.

I messicani e i loro vicini del nord sono ghiotti di spuntini. Uno dei più popolari sono i tacos, rotoli di pasta fatta con farina di maiz, ripieni di tutto l'immaginabile. All'autostazione di Los Angeles se ne trovano con tanto chile (cili) da far piangere solo da guardarli.

 

Santa Cruz:
Si riferisce alla Santa Cruz di Bolivia, una cittadina di mezzo milioni di abitanti nella parte pianeggiante e poco abitata del paese. Gli abitanti originari della regione (popolarmente, cambas) sono di etnia guaranì, come i paraguaiani; da qui l'errore.

 

Asunción:
Capitale del Paraguay, ha un milione circa di abitanti; il suo porto fluviale, centinaia di chilometri nell'entroterra, riceve navi di oltremare attraverso i fiumi Paraná e Paraguay. Dall'alto sembra un campo da tennis, tra la terra rosso vivo e la vegetazione verdissima. Ha un'estate calda e un inverno gentile, profumato di arancetti.

 

Il miglior immigrato: Ogni paese sviluppa un modello di immigrato, che casualmente è sempre più virtuoso che l'equivalente indigeno. Il matrimonio è un modello universale di inserimento: l'allogeno, lo straniero potenzialmente minaccioso, è incorporato nella tribù indigena con il più antico dei patti, e viene così digerito. I razzisti lo sanno, e tentano di ostacolare per tutti i mezzi i matrimoni misti, con grave danno per la razza umana. Trovano terreno fertile nei coetanei dello stesso sesso, cioè i rivali che perdono l'osso. Se lo straniero riesce a vincere la resistenza e sposarsi ha vinto; la "famiglia" del coniuge (famiglia in senso lato, o partito, o sindacato, o qualsiasi altro gruppo organizzato) lo prenderà sotto la sua protezione.

 

Saint Louis: Quasi tre milioni di abitanti, a sud di Chicago e a est di Kansas city. Ha una rispettabile comunità latina.

 

Discoteca: Le strade aperte per l'ascesa sociale dell'immigrato in una società xenofoba sono il commercio esotico e lo spettacolo (includendo in quest'ultimo numerose attività, dallo sport professionistico alla prostituzione, alla moda). Lo straniero può fare carriera senza scandalo quando stupisce o diverte. La discoteca unisce le due cose.

 

Multimedia: Nel 1988 era una novità assoluta; oggi è una novità. Tutti i messaggi possono essere ridotti a codice (testuali, numerici, visuali, sonori), e quindi processati in un computer. Se si possiedono le periferiche adatte, e tonnellate di memoria di massa, è possibile trasformare il computer in una macchina multimediale, e produrre, ricevere e rielaborare messaggi del tutto simili a quelli televisivi (immagini in azione con sonoro), però con libertà interattiva. Gran notizia per gli analfabeti di ritorno.

 

Manciuriani e mongoli: Non ho notizie su particolari correnti migratorie di questo origine, né il fatto ha rapporto con la crisi dell'ex-URSS, successiva al 1988. Mi ponevo nel futuro, e immaginavo una nuova minoranza sulla quale il "latino" di seconda generazione potesse esercitare la propria stupidità.

 

Razza superiore: Chi crede che ci sono più razze che l'umana crede sempre che una di loro è superiore, la propria. Questo è il buono dei razzisti: mai si mettono d'accordo tra di loro.

 

Garage: Tutte le cose importanti sono iniziate negli Usa nei garage. Le macchine le lasciano nel vialetto di ingresso o sulla porta di casa.

 

Lat Music: Il nome è inventato, almeno spero. Se c'è una vera corrente musicale di questo nome mi scuso per la mia ignoranza. La vituperata ibridità culturale delle società immigratorie è causa della maggiore esplosione di creatività musicale della nostra epoca. È un secolo almeno che i "puri" europei non producono qualcosa di originale in musica popolare, e men che meno i "purissimi" germani. Meticciatevi, gente, se non volete essere le persone più noiose del mondo di domani.

 

Notevole contrasto cromatico: La forma più ingenua, non ancora razzista, di consapevolezza razziale, è l'immagine fisica insolita dell'altro. Chi ha la fronte alta più di due dita ricorda il proprio sbalordimento da bambino, quando si fermava a guardare a bocca aperta il signore smisuratamente alto, o grasso, o fumatore di pipa, o barbuto, e la mamma dava energiche tirate di braccio. Conclude dunque che la varietà umana è sorprendente, e include la nuova immagine nella propria macchina di identificazione del genere. Quando l'altezza della fronte non arriva a due dita si differenziano i generi all'infinito. Il risultato è la spaventosa solitudine di chi non riesce a riconoscere sé stesso tranne che di fronte allo specchio.

 

Venduto: Ci sono due problemi per un clandestino: essere venduto e non esserlo. Nel primo caso c'è il lavoro nero e lo sfruttamento, nel secondo c'è la fame e il vagabondaggio. La tratta delle braccia è ripugnante, ma lo è anche lo scandalo dei benpensanti, che per curare la piaga chiedono la espulsione delle vittime del sopruso. Amici sindacalisti: perché non chiedete la espulsione (che è sempre una condanna a vita) dei poliziotti corrotti, dei caporali e dei padroncini rurali, che se la cavano in genere con multe ridicole? Perche sono i vostri connazionali?

 

Chamarra negra: (giubbotto nero) Negli ultimi anni '80 la chamarra negra era un capo di abbigliamento "in" nell'ambiente della frontiera. Era un giubbotto di un materiale sintetico nero brillante, simile alla seta, ricamato a mano con fili di colori. I pezzi di pregio maggiore erano ricamati dalle morose che rimanevano in Mexico, con profusione di cuori, frecce, frasche e fregi allegorici per mettere in rilievo il nome della legittima proprietaria (del ragazzo, non del giubbotto).

 

San Diego:
Due milioni e mezzo di abitanti, è la città più meridionale della California, ed è decisamente biculturale. È più armoniosa e bellina che Los Angeles, e anche più provinciale. Per molto tempo è stata sede della flotta Usa del Pacifico: le ragazze della classe media sognavano con le divise degli ufficiale di marina. Grande indignazione dei marmocchi locali, che si vendicavano passando a Tijuana.

 

Otay: Altopiano ventoso, in parte brullo e in parte irrigato, diviso a metà dalla border line nel retroterra californiano. La parte USA è spopolata e rurale. Nella parte mexicana sono spuntate letteralmente come funghi (capitava di trovare un capannone bianco e impeccabile, da una settimana all'altra, dov'era una distesa brulla di sabbia) decine e decine di fabbriche, in particolare dell'industria elettronica giapponese e coreana.

 

Casco VR: Cinque anni fa era una novità assoluta: si riferisce alla Virtual Reality, nella modalità che opera con casco e guantone.