C'è stato molto rumore di recente circa
presunte prove che la velocità della luce sia cambiata lungo la vita
dell'Universo: cercherò di chiarire qui di che si tratta.
Come sempre accade in questi casi, le notizie
apparse sulla stampa contengono dei brandelli di verità, e molti
fraintendimenti. Inoltre un lavoro complesso, teorico e sperimentale, è
stato nascosto dietro uno slogan d'effetto ma privo di significato: "la
velocità della luce è cambiata".
Perché dico "privo di
significato"? Perché in realtà non ha senso un confronto
assoluto di grandezze fisiche in punti separati nello spazio e nel tempo: ogni
grandezza fisica è misurata rispetto a dei campioni di misura, e
occorrerebbe preventivamente essere certi che i cmapioni usati nei due punti
siano gli stessi.
Perciò asserzioni del genere (che pure
si fanno) hanno senso solo nell'ambito di precise teorie, dove si assumano
ipotesi circa l'invariabilità di qualche grandezza: per es. appunto la
velocità della luce, come è nel quadro della relatività
generale. Se si vuol fare confronti liberi da ipotesi, ci si deve ridurre a
quelle grandezze che non richiedono campioni, ossia alle grandezze
adimensionali
(numeri puri).
Tornando al nostro argomento, le misure su cui
tutto si basa, dovute a Webb e coll., sono infatti misure della costante di
struttura fina,
e si parla, con tutte le
cautele necessarie, di indicazioni di una sua variazione nel tempo.
Concludo questa premessa con un invito a non
aspettarsi dallo scritto che segue più di quello che può dare.
La ragione è che sto parlando di ricerche in corso, e per quanto mi sia
sforzato di consultare le pubblicazioni più recenti, non c'è
alcun dubbio che la situazione è destinata a evolvere rapidamente.
Perciò parte di quanto ho scritto potrebbe risultare superato, o per lo
meno da riesaminare, nell'arco anche di pochi mesi.
Può darsi che mi riesca di tenermi
aggiornato, ma non posso prometterlo...
La risposta in termini di definizione è
semplice: nel sistema di unità di Gauss è definita come a = e
2/hc
(h
sta qui a indicare la solita costante di Planck
divisa per 2p).
È facile verificare che si tratta
appunto di un numero puro, il cui valore è circa 0.0073 (più
spesso si usa 1/137, che è sempre un valore approssimato). È
anche facile verificare che a
è l'unico numero puro che si può costruire con quelle
costanti fondamentali.; meno facile spiegarne significato e importanza.
Un esempio può essere questo:
è noto che mc
2 misura
l'energia di riposo di un particella (per un elettrone vale circa 0.51 MeV).
Consideriamo ora l'energia di ionizzazione E
i
dell'idrogeno, che vale
circa 13.6 eV: il rapporto di queste due energie è un numero puro, e ci
si aspetta che abbia qualcosa a che fare con a
: infatti il detto rapporto vale
circa 2.7x10-5, che è a
2/2. La coincidenza non è casuale:
basta prendere la formula dell'energia di ionizzazione per verificarlo.
Altro esempio: sempre nell'ambito della fisica
atomica, sono importanti tre lunghezze: il raggio classico
dell'elettrone e
2/mc
2; la
lunghezza d'onda Compton h/mc
; il
raggio di Bohr h
2/me
2.
Lascio a chi legge di verificare che i loro rapporti sono proprio a
.
Ma il primo esempio è più
interessante: permette di vedere a
come il fattore di scala dell'interazione
elettromagnetica. Infatti fa passare dall'energia propria dell'elettrone alla
sua energia di legame in un atomo.
C'è da sapere perché si chiama
"costante di struttura fina": il nome è importante
perché ha a che fare con le misure di cui stiamo parlando. Torniamo
all'atomo d'idrogeno, e ai suoi livelli energetici. In una prima
approssimazione, questi sono dati dalla semplice formula En
= -E
i
/n
2, dove
E
i
è l'energia di ionizzazione già vista, e n
assume i valori interi positivi.
Ma questa è appunto una prima
approssimazione: misure più accurate mostrano (e poi la teoria
giustifica) che quei livelli hanno una struttura fina,
ossia ogni livello consiste in realtà di un
multipletto
di livelli, di separazione
piccolissima.
Non sto a dare formule, che non ci servono, ma
dico solo quello che già avrete intuito: il rapporto fra la separazione
nei multipletti e l'energia di ionizzazione è di nuovo dell'ordine di
a
2. Il
che vuol dire che le separazioni sono dell'ordine di 10-4 eV:
appunto molto piccole.
La stessa struttura a multipletti appare in
tutti gli atomi, ed è ad es. quella che produce il famoso doppietto
della "riga gialla" del sodio: due righe spettrali vicine, a 589.0 e
589.6 nm.
Le misure riguardano le righe di assorbimento
prodotte, nella luce proveniente dai quasar, da nubi intergalattiche frapposte
tra il quasar e noi.
Per i nostri scopi non importa molto sapere che
cos'è un quasar (detto anche QSO: "quasi stellar object"). Si ritiene
che si tratti di un nucleo galattico estrememente attivo, ossia con un
fortissima emissione di radiazione, probabilmente dovuta alla cattura di
materia da parte di un buco nero al centro della galassia.
Per ora però ciò che conta
è solo che i quasar sono molto distanti (miliardi di anni-luce) ed
emettono radiazione nel visibile e nell'ultravioletto.
Quanto alle nubi intergalattiche, si tratta di
gas interposto fra le galassie, che in certe regioni è più
concentrato della media. Il gas consiste in prevalenza d'idrogeno, ma
può contenere anche altri elementi, e perfino metalli pesanti,
risultati dell'esplosione di supernovae. Questi metalli pesanti sono
essenziali per le misure di cui stiamo parlando.
La luce del quasar ha uno spettro continuo, e
quando attraversa la nube viene assorbita in corrispondenza delle lunghezze
d'onda caratteristiche degli atomi e ioni presenti nella nube. Ciò che
si misura sono appunto le lunghezze d'onda delle righe di assorbimento.
Per capire l'interpretazione delle misure,
occorre ricordare che la luce che ci arriva da oggetti lontani subisce una
variazione di lunghezza d'onda, nota col nome di "redshift
cosmologico". Se si accettano i modelli cosmologici basati sulla
relatività generale (attenti a questo punto!) la legge del redshift
è molto semplice: il rapporto fra la lunghezza d'onda ricevuta e quella
emessa è uguale a quello fra i parametri di scala ("raggi"
dell'Universo: v. "La cosmologia dall'A alla B") ai tempi di arrivo
e di partenza della luce. Dato che l'Universo si espande, il raggio cresce, e
così fanno anche le lunghezze d'onda: per questo si parla di
"redshift". Si definisce parametro di redshift
z
l'espressione
(l
r -
l
e)/l
e.
Ne segue anzitutto che la luce del quasar
è soggetta a un forte redshift: questo è importante per lo
studio dei quasar e per la storia della loro scoperta (circa 40 anni fa) ma
non per noi. Sono conosciuti quasar con z
> 5; il record sembra essere 5.8.
È invece importante che anche la nube
assorbente è distante, e quindi anche la luce assorbita ha un redshift,
che dipende dalla distanza della nube. Sfruttando questo fatto, si riesce in
primo luogo a misurare il redshift (per confronto con le righe spettrali
misurate in laboratorio) e poi a studiare in dettaglio se lo spettro di
assorbimento è esattamente lo stesso
di quello degli atomi nel laboratorio.
Vediamo meglio quest'ultimo punto.
Facciamo, per cominciare, l'ipotesi che tutto
resti invariato lungo l'evoluzione dell'Universo: tutte le costanti
fondamentali, quindi tutta la struttura e le proprietà della materia:
particelle, nuclei, atomi...
Consideriamo ora un qualsiasi atomo o ione: per
es. Fe+, utilizzato da Webb e coll. In laboratorio misuriamo con
cura tutte le righe di assorbimento di questo ione, poi confrontiamo le misure
con quelle ricavate dall'assorbimento di una certa nube extragalattica, che
sta a una certa distanza da noi. Che cosa ci aspettiamo di vedere?
Fissata la distanza, è fissato il
tempo di propagazione della luce, quindi è fissato il redshift: ne
segue che tutte le righe di assorbimento dovranno avere esattamente lo
stesso z.
E questo dovrà valere non
solo per quel particolare ione, ma per tutti gli atomi e ioni presenti e
misurati.
Inutile dire che le misure sono tutt'altro che
semplici, che ci sono innumerevoli cause di errore, che quindi
l'attendibilità del lavoro dipende da quanto abili sono i ricercatori
nel tener conto di tutto; su questo non posso insistere (anche perché
non ne sarei capace...).
Detto tutto ciò, la prima, rozza
conclusione dei lavori di Webb et al. è che il redshift osservato
non è lo stesso per tutte le righe.
A questo punto facciamo un'altra ipotesi:
che qualcuna delle costanti non sia costante, per es. e
(carica dell'elettrone). È ovvio che le
energie dei livelli dipendono da e,
e a
prima vista si potrebbe pensare che tale variazione, e la conseguente
variazione delle lunghezze d'onda delle transizioni, sia facilmente
osservabile e spieghi appunto ciò che si vede; ma le cose non sono
così semplici...
Pensiamo infatti all'atomo d'idrogeno per
semplicità (ma le cose vanno allo stesso modo per gli altri atomi). Ci
basta l'antico modello di Bohr per capire quello che succede: se cambia
e,
cambieranno tutti i raggi delle
orbite, che sono inversamente proporzionali a e
2; e cambieranno tutte le energie dei livelli,
proporzionalmente a e
4. Dunque
tutte le righe spettrali avranno lunghezze d'onda modificate, in modo
inversamente proporzionale a e
4 (per un fotone energia e lunghezza d'onda sono
inversamente proporzionali!)
Ma una tale alterazione delle lunghezze d'onda
è del tutto simile a quella prodotta dal redshift, per cui non
potremmo distinguerla dal redshift stesso. In altre parole, una variazione
di e
simulerebbe una differente distanza
della nube. E dato che non abbiamo un modo indipendente di misurare la
distanza, siamo bloccati...
È facile vedere che esattamente la
stessa cosa capita se supponiamo che sia un'altra qualsiasi costante a
cambiare, o anche più d'una. Allora non ci sono speranze? E che cosa
hanno misurato Webb e C.?
Per fortuna, le cose non stanno proprio come ho
appena detto: il cambiamento in scala di tutte le energie e di tutte le
lunghezze d'onda non è esatto, grazie alla struttura fina.
Infatti mentre le energie nel modello di Bohr (e
nella prima approssimazione della meccanica quantistica) sono proporzionali a
e
4, le separazioni di
struttura fina vanno come e
8;
quindi una variazione di e
non modifica
proporzionalmente tutti i livelli
: la
struttura fina cambia di più.
Ed ecco la soluzione: usare le lunghezze d'onda
principali per stimare il redshift, e poi controllare la struttura fina. Se
questa non rispetta il redshift, vuol dire che qualche costante è
cambiata.
Questa non è un'idea nuova: i primi
tentativi risalgono addirittura agli anni '50 dello scorso secolo, ma furono
infruttuosi fino a poco tempo fa, nel senso che a
risultava costante entro gli errori
di misura.
Webb et al. hanno trovato un modo per rendere
le misure più sensibili, confrontando gli spettri di diversi ioni
(inizialmente Mg+ con Fe+, poi anche altri) e
guadagnando così un fattore 10, il che ha permesso di scoprire la
variazione di cui si sta parlando.
Anche se forse rischio di complicare troppo
il discorso, vorrei aggiungere che non bastava fare misure precise, e per due
ragioni. La prima è che occorreva avere dei termini di confronto, ossia
delle buone misure di laboratorio. Sembrerà strano, ma la situazione
attuale è che il limite sperimentale sta proprio qui: per sfruttare a
pieno i dati osservati occorrerebbero misure più precise delle righe
spettrali in laboratorio...
Ma c'è una seconda ragione. Per valutare
la variazione (eventuale) di a
bisogna sapere come verrebbero modificate tutte le
lunghezze d'onda da tale variazione, ossia occorre calcolare
teoricamente
i livelli degli atomi o ioni
interessati. Dato che questi calcoli non esistevano, o almeno non
sufficientmente accurati, Webb e coll. si sono dovuti sobbarcare anche questo
compito.
Come sempre accade nelle ricerche di frontiera,
le prime misure non permettono una decisione assolutamente certa. Al momento
presente le misure sembrano indicare una variazione di a
nettamente al difuori degli errori
per redshift tra 1 e 2, mentre non sembra esserci variazione per redshift
minori (e questo è ragionevole, trattandosi di nubi vicine, ossia
attraversate dalla luce "poco tempo fa") ma neanche per redshift
maggiori (e questo è molto più strano, però gli errori
sono parecchio più grandi).
Quindi qualcosa, che io chiamerei "un
forte indizio", c'è; ma l'andamento col redshift è strano e
potrebbe nascondere qualche errore sistematico. Ovviamente occorreranno altre
misure per risolvere l'incertezza. Tanto per fissare l'ordine di grandezza,
gli autori stimano una variazione relativa di a
un po' minore di 10-5.
Dunque è dimostrato che la carica
dell'elettrone, o magari qualche altra "costante", è cambiata
nel tempo? Neanche per idea...
Ho già detto sopra che in nessun caso
è possibile separare la variazione di una costante da un'altra; che la
sola cosa che può essere accertata è una variazione di una
grandezza adimensionale. Perciò la costante di struttura fina, come
vedete, gioca due ruoli: primo, è solo grazie alla struttura fina che
è possibile scoprire qualcosa; secondo (ma in realtà la ragione
è la stessa) la sola cosa che si arriva a dimostrare è una
variazione nel tempo di a
.
Infatti, non a caso, tutti gli articoli parlano
nel titolo di "variazione nel tempo della costante di struttura
fina".
Manco a dirlo, i teorici si sono subito buttati
su questi risultati, per tentarne un'interpretazione. Del resto, la
possibilità di una variazione di qualche costante fondamentale (o
meglio, delle loro combinazioni adimensionali) è storia antica: si
attribuisce la prima idea a Dirac (1937).
Nel corso degli ultimi tre anni, ossia da
quando si parla delle prime misure di Webb et al., sono usciti almeno 6 lavori
teorici sull'argomento (senza contare quelli di cui non sono a conoscenza...)
e seza dubbio altri ne usciranno a breve.
Tutti girano attorno a un'idea: modificare
in un modo o nell'altro le equazioni della RG. Fondamentalmente due strade
sono state seguite: una in cui si assume variabile nel tempo la carica
e
dell'elettrone, e un'altra in cui
invece variano insieme c
e h.
Dato ciò che ho già detto circa
l'impossibilità di distinguere, può sembrare strano che siano
state proposte teorie delle due forme: spieghiamo brevemente il punto.
Il fatto che solo la variazione di a
ha significato,
equivale a dire che una teoria in cui variano h
e c
può essere
riformulata come una teoria del tutto equivalente
in cui varia e.
Ma questo non
significa che non possano esistere due
teorie non equivalenti, una delle quali viene espressa più
semplicemente nella forma in cui varia e,
e l'altra nella forma in cui variano c
e
h.
Dato che le due teorie sono diverse,
possono avere conseguenze diverse, prevedere diversi effetti osservabili,
spiegare più o meno bene ciò che si sa.
Questo è dunque il problema aperto oggi
ai teorici, sempre che si vogliano dare per certi i risultati sulla variazione
di a
.
In questo quadro, che senso hanno le notizie
apparse sulla stampa? Si tratta solo di questo: che in un numero recente di
Nature
è apparso un brevissimo
articolo di Davies et al. che porta argomenti a favore della variazione di
c
. Mi sembra difficile qui spiegare
quegli argomenti, anche perché la brevità dell'articolo non lo
rende di facile interpretazione.
Però tutto quanto ho detto fin qui
dovrebbe far capire che in realtà non ci possono essere argomenti a
favore di una variazione di c
: al più
ci saranno argomenti secondo i quali, se si tengono ferme certe
ipotesi,
allora una variazione di a
richiede che sia
c
ad essere variabile. Ciò che non
è facile capire dall'articolo (o almeno, io non ci sono arrivato...)
è quali siano le ipotesi aggiuntive.
Non c'è dubbio che se la variazione di
a
risulterà
confermata, bisognerà adattare le nostre teorie per tenerne conto.
Però il metodo finora seguito, di "mettere una pezza" alle
equazioni di Einstein, mi lascia tutt'altro che soddisfatto.
Le equazioni di Einstein hanno una loro
eleganza strutturale, e soprattutto una semplicità nelle motivazioni
fisiche, che con queste modifiche vanno perdute, come del resto già
accade col "termine cosmologico". Certo, se le equazioni di Einstein
non sono compatibili con le osservazioni, non c'è niente da fare:
occorrerà metterci le mani... Resta da vedere se la strada che mi pare
venga seguita sia quella giusta.
Ma dato che non ho una strada migliore da
proporre, forse questa critica non dovrei neppure farla...
Riassumendo:
, anche se il quadro non
è troppo chiaro
Per finire, una domanda: perché
allora la stampa si è "buttata" sulla variazione di
c
? Mi pare chiaro: perché è
la cosa più "popolare", perché l'argomento della costanza della
velocità della luce è al tempo stesso comprensibile anche a un
livello infimo di conoscenze scientifiche, e capace di "fare
rumore": Einstein si è sbagliato? dobbiamo buttare la
relatività? Eccetera eccetera...
Quanto tutto ciò abbia a che fare con la
realtà della ricerca scientifica, non ho bisogno di spiegarlo...