Eccoci di nuovo qua, per concludere questa
lettura del libro di Zichichi: Galilei divin uomo.
Per brevità rinuncio al "riassunto della puntata
precedente" ed entro subito in argomento, esaminando gli esempi che Z. fa
di scienziati "non galileiani".
In verità, per Z.
"scienziato" è pressoché sinonimo di
"galileiano": infatti quando elenca nomi e fa riferimenti a
scienziati del 20-mo secolo li include praticamente tutti fra i galileiani, e
spesso dice "galileiani" sottintendendo "scienziati".
Tutto bene. Ma ci sono alcune eccezioni, alle quali dedica un capitolo,
intitolato
Hanno dimenticato Galilei ieri e lo dimenticano ancora oggi: Mach,
Einstein e Monod.
(pag. 469)
che comincia così:
Jacques Monod (1910-1976) nega la necessità e afferma che tutto è caso: ha dimenticato l'insegnamento galileiano in modo totalmente banale.
A mio parere, qui di totalmente banale
c'è solo la falsità di quanto c'è scritto. Non occorrono
infatti profondi studi e profonde competenze per vedere come stanno le cose:
basta aprire il più famoso libro di Monod, Il caso e la
necessità.
A parte il titolo, che
già dice qualcosa, fin dall'inizio troviamo ad epigrafe una frase di
Democrito: "Tutto ciò che esiste nell'universo è frutto del
caso e della necessità". Sfogliando un po', troviamo poi nel cap.
VII (pag. 99 dell'ed. italiana EST-Mondadori 1970) quanto segue:
Ancora oggi molte persone d'ingegno
non riescono ad accettare e neppure a comprendere come la selezione, da sola,
abbia potuto trarre da una fonte di rumore tutte le musiche della biosfera. In
effetti, la selezione agisce
sui prodotti
del caso e non può alimentarsi altrimenti; essa opera però in un
campo di necessità rigorose da cui il caso è bandito.
Da queste necessità, e non dal caso, l'evoluzione ha tratto i suoi
orientamenti generalmente ascendenti, le sue successive conquiste, il
dipanarsi ordinato di cui offre apparentemente l'immagine.
Ora se Monod ci dice che molte persone
d'ingegno non riescono a capire, io non pretendo che ci riesca Z.; pretendo
però che informi correttamente i suoi lettori, e non travisi a suo uso
e consumo il discorso di un autore, solo perché costui non è
della sua parrocchia.
Passiamo a Mach, che non sarebbe galileiano
perché "morì convinto che i suoi amici e colleghi erano
usciti di senno con la loro teoria atomica. Com'è possibile - si
chiedeva Mach - studiare cose che mai l'uomo [...] potrà vedere
né toccare?" (pag. 469). Non starò a ripetere quanto ho
già detto, ma ancora una volta debbo notare come Z. tenda a ridurre in
caricatura chi non la pensa come lui. Infatti ecco la sua "risposta a
Mach: Galilei insegna che una teoria è valida se prevede risultati
riproducibili. Non se si limita a ciò che la vista e l'olfatto possono
percepire". Se andiamo a leggere Mach ovviamente troviamo una posizione
assai meno primitiva di questa, e niente affatto irragionevole per i suoi
tempi. Non ha alcuna importanza se oggi sappiamo che aveva torto circa
l'esistenza degli atomi; del resto lo stesso G., solo per fare un esempio, non
volle credere alle orbite ellittiche di Keplero. Aveva torto, ma è
forse meno galileiano per questo?
Infine dobbiamo dedicare un po' di spazio
ad Einstein. È necessario, perché è un caso speciale nel
contesto di questo libro: infatti tra i "fisici galileiani" del
20-mo secolo Z. fa praticamente un'unica eccezione, appunto Einstein. E non
solo: a lui dedica diverso spazio, ma soprattutto per "dimostrare"
che non ha poi merito per tutte le scoperte che gli si attribuiscono:
Per concludere, Einstein è famoso per due cose non sue: la
Relatività e la luce che "cade". Pochi conoscono ciò
che ha veramente scoperto Einstein: quando mangiamo spaghetti, in effetti
stiamo masticando un concentrato di Spazio-Tempo.
(pag. 449)
Piuttosto che ripercorrere a forza di
citazioni il punto di vista di Z. su Einstein, cerco di riassumerlo. In
sostanza Z. dice che Einstein ha fatto ben poco, perché
a
) Il principio di relatività
l'aveva già enunciato G.
b
) Alla natura corpuscolare della luce
c'era già arrivato Newton.
c
) Anche la deflessione gravitazionale
della luce è già in Newton, anche se Einstein ha trovato che i
"corpuscoli luminiferi cadono come se avessero massa doppia".
d
) Allo spazio-tempo
"complesso" c'era già arrivato Lorentz.
Resta quindi praticamente solo una cosa: quella degli spaghetti, che a Z.
piacciono tanto, mentre a me cucinati in quel modo riescono proprio
indigesti... Detta in altre parole, sempre di Z., la vera scoperta di Einstein
sarebbe che "la massa è curvatura dello Spazio-Tempo".
| * * * |
E ora mi tocca spiegare, sia pur
sommariamente, il significato delle asserzioni a
)-d
) di poco sopra. Cominciamo
con a
), che tutto sommato è il
più semplice. L'argomento di Z. è che l'enunciato galileiano del
principio di relatività non si limita alla meccanica, ma è
formulato in modo tale da includere tutti i fenomeni fisici: quindi anticipa
le idee di Einstein di circa tre secoli.
Questo è vero, e mi è anche
capitato di scriverlo, senza sapere che Z. la pensava allo stesso modo... Ma
... c'è un ma. Riterrei antistorico asserire che il principio
galileiano vale solo per la meccanica, perché ai suoi tempi la
distinzione della fisica in capitoli non esisteva (anzi, non esisteva neppure
la fisica come scienza a sé: si parlava solo di "filosofia
naturale"); ma per la stessa ragione ritengo antistorico attribuire a G.
il pensiero cosciente che il principio di relatività dovesse valere al
di fuori della meccanica (in particolare per l'elettromagnetismo):
semplicemente perché l'e.m. a quel tempo era ancora di là da
venire.
Enunciare esplicitamente
l'universalità del principio di
relatività agli inizi del '900, quando si riteneva che le equazioni di
Maxwell valessero solo in un particolare riferimento inerziale (quello
dell'etere) ha un significato rivoluzionario che non si può nascondere
dietro l'equivalenza verbale tra la formulazione di Einstein e quella di G.
Insomma Einstein dice: "io non credo nell'etere, anzi affermo che le
leggi dell'e.m. valgono allo stesso modo, come quelle della meccanica, in ogni
riferimento inerziale". Dice questo in contrapposizione a un Lorentz, per
esempio, che invece crede nell'etere e ritiene reale la contrazione delle
lunghezze ecc.
Non mi stupisce che Z. non capisca tutto
questo: ho già fatto notare che la sua sensibilità storica
è vicina allo zero...
Passando a b
), c'è da ripetere quasi lo stesso discorso. L'ipotesi
corpuscolare di Newton è piuttosto naturale per l'epoca, anche se si
contrappone a quella ondulatoria di Huygens. Quella di Einstein invece arriva
dopo un secolo di prove sperimentali sulla natura ondulatoria della luce, a
pochi anni dal trionfo della teoria di Maxwell e dalla scoperta delle onde
e.m., che unifica la luce col campo dei fenomeni e.m. Asserire a quel punto
che la luce ha carattere granulare è quasi un'eresia, ed è
comunque profondamente innovativo: non è la banale riproposizione delle
idee di Newton.
Quanto a c
), c'è poco da aggiungere. È vero che sulla base del
modello corpuscolare di Newton e della gravitazione universale segue di
necessità che anche la luce dev'essere deviata da un campo
gravitazionale; ma l'interpretazione einsteiniana di quella deviazione
è tutt'altra cosa. Lasciamo da parte la stravagante interpretazione che
ne dà Z., in termini di "massa doppia": forse il Nostro ha
momentaneamente dimenticato l'insegnamento di G.? Dato che il moto di un grave
non dipende dalla sua massa, i corpuscoli di qualunque massa sarebbero
deflessi allo stesso modo...
Ho detto che l'interpretazione einsteiniana
è tutt'altra cosa, perché introduce un nuovo paradigma per la
gravitazione,
ossia la Relatività
Generale. Il semplice fattore 2 nell'angolo di deflessione non è cosa
da poco, in quanto assume il carattere di experimentum crucis
: abbiamo due teorie che fanno previsioni
contrastanti, e le misure possono dare ragione all'una o all'altra.
La sola cosa di cui ci si può
meravigliare è che Z. non afferri tutto ciò; tanto che sono
portato a credere che ci siano altre ragioni che lo spingono a travisare
così pesantemente la storia.
Abbiamo infine lo "spazio-tempo
complesso", e qui bisogna spiegarsi un po' meglio, perché al
solito travisamento della storia si sovrappone uno dei più
caratteristici strafalcioni della fisica zichichiana.
Che cosa intenderà mai Z., vi
chiederete, con "spazio-tempo complesso"? Va detto che questo
è un tema per lui ricorrente: non solo lo ripete più volte nel
libro, ma l'ho anche trovato in una sua intervista a un giornalista del
"Messaggero", dove sviluppava il tema ricordando al lettore che Kant
aveva creduto - sbagliando - che spazio e tempo fossero "reali",
mentre invece Lorentz aveva scoperto che uno solo dei due può essere
reale, ma l'altro dev'essere immaginario (l'uno o l'altro a scelta ...). Qui
si coglie uno dei tipici funambolismi di cui Z. è maestro: si salta con
disinvoltura dal significato che le parole "reale" e
"immaginario" hanno nel linguaggio comune, e in parte in quello
filosofico, al significato specifico della matematica. S'intende, senza
avvertire chi legge.
È una presentazione davvero rozza,
anzi capovolta, del pensiero di Kant attribuirgli l'idea che spazio e tempo
siano "reali"; ma ad ogni modo si sta parlando del problema
filosofico: si tratta di oggetti del mondo esterno, di nostre costruzioni
mentali, o di che altro? Poi si salta alla relatività, e si attribuisce
(del tutto erroneamente) a Lorentz la scoperta che uno dei due dev'essere
"immaginario". Che mai potrà pensare l'ingenuo lettore (anche
se ha più di 12 anni)? Che in relatività spazio o tempo (ma non
entrambi, badate bene) non hanno esistenza reale? Il fatto è che sotto
il linguaggio oscuro di Z. si nasconde nient'altro che la particolare
relazione tra spazio e tempo che in forma matematica prende il nome di
"trasformazioni di Lorentz".
Non posso qui dilungarmi, ma debbo
ricordare in primo luogo che anche se le trasformazioni di Lorentz si chiamano
così, perché se ne deve a lui la prima formulazione, di fatto
l'interpretazione fisica che ne dà Einstein è totalmente
diversa. Quanto poi al reale e all'immaginario, siamo solo di fronte a una
particolare formulazione matematica, nata con Minkowski (1907), in cui quelle
trasformazioni acquistano forma più semplice al prezzo di lavorare
appunto con una coordinata immaginaria (di solito il tempo).
Bisogna però dire che si tratta solo
di un artificio matematico, neppure tanto felice, che ha avuto una certa
popolarità nella prima metà del 20-mo secolo ma poi è
caduto del tutto in disuso. Il merito storico di Minkowski non è certo
in quell'espediente, ma nell'aver capito che la relatività
einsteiniana, e in particolare le trasformazioni di Lorentz, portavano alla
necessità d'introdurre un ente fisico unico (lo spazio-tempo
) e di dotarlo di una metrica
invariante, che coinvolge così lo spazio come
il tempo. (Mi scuso se non posso essere più chiaro, per non
allontanarmi troppo dal tema.)
È probabile che Z. abbia studiato la
relatività, nei suoi verdi anni, su libri che adoperavano l'artificio
del tempo immaginario; ma che non si sia ancora reso conto che il ... tempo
è passato, e che nessuno lo usa più, dà veramente da
pensare.
Ancora una parola di commento sulla storia
degli spaghetti, ossia sulla massa "curvatura dello Spazio-Tempo":
l'unica scoperta che Z. è disposto a riconoscere ad Einstein. Peccato
che la formulazione zichichiana, tanto per cambiare, sia del tutto errata...
Infatti la Relatività Generale non dice affatto questo: dice se mai che
la massa (e non solo la massa, ma anche l'energia, la quantità di moto)
è una sorgente
per la curvatura
dello spazio-tempo. La distinzione è esattamente la stessa che
c'è tra carica elettrica e campo elettrico: la carica è la
sorgente del campo, il che vuol dire che attorno a una carica si trova un
campo, che si attenua con la distanza. La stessa cosa succede tra massa e
curvatura: per es. la massa del Sole incurva lo spazio-tempo attorno, anche
dove si trova la Terra e oltre. Dunque nella gran parte dello spazio
c'è curvatura senza nessuna massa presente. Troppo difficile: per un
dodicenne, o per Z.?
Per finire col giudizio di Z. su Einstein:
perché non lo annovera tra gli scienziati galileiani? Spiegazione:
c'è per Einstein un primo periodo "galileiano", in cui scopre
quel poco che Z. è disposto a riconoscergli (dimenticando alcune
cosette, per le quali Born disse che Einstein sarebbe rimasto il più
grande fisico teorico del 20-mo secolo, anche se per assurdo non avesse
inventato la relatività). Ma poi "negli anni venti si convinse che
c'era ben poco da scoprire sperimentalmente. [...] Einstein era convinto che
il problema di unificare la Gravitazione Universale e l'Elettromagnetismo
fosse di natura puramente matematica". (pag. 471).
Questa è dunque la "colpa"
di Einstein? Ora se è vero che il tentativo di Einstein è
fallito (almeno per quanto possiamo dire oggi) sarebbe anche giusto rilevare
che il metodo da Lui seguito non era affatto diverso da quello che lo
portò al successo della Relatività Generale. Non solo, ma se
prendiamo per es. un altro grande teorico, che Z. non esita a porre
nell'Olimpo dei galileiani, e cioè Dirac, dobbiamo dire che la sua idea
fondamentale (l'equazione che ne porta il nome, e che aprì la strada
alla scoperta delle antiparticelle) fu ottenuta con un metodo del tutto
simile: la ricerca puramente formale di una struttura matematica semplice ed
elegante che conciliasse la meccanica quantistica dell'elettrone con la
relatività ristretta. Dunque Dirac galileiano sì perché
ha avuto successo, e Einstein no perché non ce l'ha fatta?
Lo confesso: leggendo il resto del libro,
che qui non posso continuare a citare, non riesco a sottrarmi a
un'impressione, e cioè che la vera differenza sia un'altra. Che quello
che Z. non può perdonare ad Einstein siano le sue idee in materia di
religione e politica. E basti questo accenno: chi vuole verificare, paghi il
tributo di 17 euro e spiccioli, e vedrà se mi sbaglio.| * * * |
Vi sarete chiesti: va bene, ci hai detto
all'inizio che questo non è un libro di fisica; ma di fisica si
parlerà pure... Sì, se ne parla, e anche molto. A parte cose di
cui ho già scritto, ci sono almeno un centinaio di pagine in cui Z. ci
porta ai confini delle conoscenze di oggi, con veloci carrellate dal passato
al presente e al futuro. Ma purtroppo mi riesce impossibile darvene conto in
dettaglio, non tanto per lo spazio che richiederebbe, quanto perché non
saprei da dove incominciare, né come inquadrare l'argomento.
Il fatto è - debbo confessarlo - che
a me il modo che ha Z. di parlare di fisica riesce assolutamente indigesto.
Ricorderete che ho già usato questo aggettivo a proposito degli
"spaghetti", ma vale in generale. Sarà certamente difetto
mio, ma non riesco a vedere il senso di presentare la fisica per immagini
fantasiose quanto per me incomprensibili; non di rado faccio fatica a capire
di che cosa sta parlando, e quando lo capisco mi chiedo come possa esserci
così poca affinità d'idee su una materia di cui siamo entrambi
cultori da lunga pezza...
Va detto che in fondo gli excursus
nella fisica di oggi non sono molto rilevanti per il
tema del libro, e anche per questo non è forse il caso di spenderci
molte parole. Può essere invece istruttivo vedere un solo esempio di
come Z. tratta un tema non strettamente fisico, o se vogliamo di scienza del
"secondo livello": la formazione del sistema solare.
Ma allora, se l'unica sorgente di Attrazione Gravitazionale è il
Sole, perché la nostra Terra non precipita rovinosamente verso l'enorme
massa del Sole?
Risposta: alle origini del Sistema Solare (che ancora oggi, nessuno sa
spiegare in modo galileianamente credibile) la nostra Terra volava verso il
Sole. Per nostra fortuna non lo ha centrato. Essa era lontana dal bersaglio di
circa centocinquanta milioni di chilometri. E aveva la velocità giusta
per essere intrappolata dall'Attrazione Gravitazionale prodotta dalla enorme
massa solare. Se la nostra Terra, invece di volare a centosettemila chilometri
orari, avesse avuto una velocità più grande, ci saremmo persi
per sempre nello spazio cosmico della nostra Galassia.
Siamo stati fortunati! La velocità della Terra era quella giusta per
poter restare legati "gravitazionalmente" al Sole, con tutti i
vantaggi di essere perfettamente illuminati e scaldati per miliardi di
anni.
(pag. 126).
Non mi pare che occorrano molti commenti:
questa non è fisica né astronomia: sono favole per bambini. Mi
sembra di vederli, questi uomini primitivi che arrivati da lontano, a cavallo
di questa grande palla, finalmente si stropicciano le mani al gradevole tepore
del Sole... Per non parlare poi della "meccanica zichichiana", di un
corpo che arriva con una certa velocità (quella giusta, però) e
si "aggancia" alla forza di gravità del Sole, cambiando
repentinamente traiettoria...
E a proposito: è stata davvero e
soltanto fortuna? Possibile che Dio non ci sia entrato per nulla? Questo da Z.
non me lo aspettavo!
Se per caso pensate che si tratti di un
discorso un po' semplificato sì, ma in fondo episodico, sbagliate,
perché Z. ha già toccato lo stesso tema:
Noi siamo su una trottola cosmica che gira in senso antiorario. Compie
un giro completo in ventiquattro ore e dà a noi l'impressione che siano
le Stelle a girare attorno alla Terra in senso orario. La scelta del senso
orario per il moto delle lancette dei nostri orologi nasce dalla illusione che
il cielo con le sue Stelle giri attorno a noi in senso orario. Le lancette
degli orologi avrebbero sicuramente ruotato in senso antiorario se, alle
origini del Sistema Solare, la Terra fosse arrivata ruotando a trottola in
senso orario.
(pag. 70).
Signore e signori, in questo quadro vedete
una trottola che arriva dalle profondità dello spazio; si aggancia al
Sole, sempre ruotando in senso antiorario; lo stesso fanno gli altri pianeti
... e nasce il sistema solare.
Non cercate di spiegare a Z. che la
rotazione di Terra e pianeti, quasi tutti nello stesso verso del Sole, abbia
qualcosa a che fare con la formazione del sistema da un'iniziale
concentrazione di materia dotata di momento angolare, perché vi
dirà che non è una spiegazione "galileianamente
credibile", anche se la sua invece è galileianamente
incredibile... Ma soprattutto non provate a convincerlo che parlare di
rotazione oraria o antioraria per la Terra non ha alcun senso, visto che tutto
dipende da che parte si guarda; che lo stesso moto apparente della sfera
celeste è orario per noi se guardiamo a sud, ma è antiorario se
guardiamo a nord. Non ci riuscirete, perché per lui questa è
un'idea ben salda, che ha già espresso in altre occasioni; quindi deve
averci pensato su bene...
Sempre sul sistema solare:
Quando Galilei seppe delle regolarità scoperte da Keplero sui
moti dei pianeti, e cioè che quelli più vicini ruotano
più velocemente attorno al Sole di quelli lontani, non disse che queste
regolarità negavano l'esistenza di Dio.
(pag. 129)
Qui direi che Z. riesce a battere se
stesso, per la concentrazione di favole che accumula in poche righe.
Primo: G. non seppe un bel niente da
Keplero, o meglio ignorò nel modo più completo ciò che
Keplero aveva trovato. Non c'è una sola riga negli scritti di G. dove
si dia riconoscimento a Keplero, che al contrario viene duramente criticato
per la sua ipotesi sulle maree (ne abbiamo parlato anni fa).
Secondo: le "regolarità"
di Keplero erano un pochino più profonde che la pura osservazione dei
diversi periodi dei pianeti, che dopo Copernico erano ben noti. Perciò
G. sapeva dei periodi, come lo sapevano tutti gli scienziati del suo tempo,
anche senza bisogno di Keplero.
Terzo: non riesco a vedere perché
mai G. avrebbe dovuto pensare che quelle regolarità negavano
l'esistenza di Dio. A me sembrano irrilevanti in un senso e nell'altro, ma non
pretendo di penetrare le profondità del pensiero teologico
zichichiano.
| * * * |
Ho mostrato diverse citazioni in cui Z.
nomina la "cultura atea dominante", e forse qualcuno si sarà
chiesto di che si tratta. Purtroppo non so rispondere se non chiedendo ancora
aiuto a Z., che per fortuna ci ammaestra in un capitolo intitolato "Il
terrorismo culturale e le dieci menzogne della cultura atea". Comincia
così:
Devi stare attento a dire di credere in Dio. Ti fai subito una cattiva
reputazione. Di te non diranno che sei uno studioso attento che cerca di
capire le verità scritte nel Libro del Creato. Loro che ignorano queste
verità
[...] diranno di te che sei
un credulone ignorante.
(pag. 425)
E subito dopo elenca le "dieci menzogne". Ve le riporto qui di seguito senza commento, solo per mostrarvi di che razza di minestrone si tratta:
1) Galilei si fingeva credente in quanto aveva paura dello strapotere
della Chiesa;
2) Dionigi il Piccolo (ca 500-555), autore del Codice Canonico, era un piccolo
abate che non sapeva nemmeno fare somme e sottrazioni;
3) l'estrema precisione del nostro calendario è frutto della tecnologia
moderna che non ha bisogno di Dio;
4) la Scienza ha scoperto tutto e se non scopre Dio è perché Dio non
esiste;
5) è una grande conquista della Scienza moderna l'aver dimostrato che
discendiamo, per evoluzione, dalle scimmie;
6) i responsabili delle bombe e dell'inquinamento planetario sono gli
scienziati;
7) Tecnica e Scienza sono la stessa cosa;
8) il marxismo scientifico è il motore della Scienza;
9) la religione è l'oppio dei popoli;
10) Fede e Scienza sono nemiche.
Le pagine che seguono sono dedicate alla
confutazione di queste "dieci menzogne", ma ve ne faccio grazia...
Piuttosto vorrei soffermarmi su un aggettivo, che si trova infilato come per
caso nel discorso: la cultura atea è spesso definita
"dominante". Lasciamo quindi stare la caricatura, al di là di
ogni immaginazione, che Z. ci propone di questa supposta "cultura",
e cerchiamo di capire il perché dell'aggettivo.
Nella frase iniziale del capitolo Z. vuole
far credere ai suoi lettori che a dichiararsi credenti si viene discriminati e
trattati da "creduloni ignoranti". Forse si viene anche danneggiati
nella carriera; magari non si vince un meritato Nobel...
Ma vediamo di ristabilire qualcosa che si
avvicini di più alla verità. Non mi risulta che nessuno abbia
mai dato a Z. del credulone, e certamente non intendo farlo io. Quanto
all'ignorante, dipende: quando uno si espone pubblicamente con libri, presenze
in TV, interviste, ecc., può venir giudicato in base a ciò che
dice. E dato che la scienza è fortunatamente oggettiva e non è
materia di opinione, "nelle dimostrazioni necessarie o indubitabilmente
si conclude o inescusabilmente si paralogiza, senza lasciarsi campo di poter
con limitazioni, con istorcimenti di parole o con altre girandole sostenersi
più in piede, ma è forza in brevi parole ed al primo assalto
restare o Cesare o niente". Questo, come avete certo capito, non è
Z., ma Galileo (Il Saggiatore
). E
l'essere cristiano, buddista, musulmano o ateo non ci ha niente a che
fare.
Né credo che Z. possa lamentarsi di
non aver avuto spazio pubblico per far conoscere le sue idee: da decenni tiene
una rubrica TV, per lungo tempo ha scritto su un quotidiano romano (non so se
lo faccia ancora); ha pubblicato libri che si trovano in ogni libreria e hanno
goduto di ampia diffusione. Niente male, per uno che vive in un Paese dominato
dalla cultura atea...
C'è poi una notizia che forse non
conoscete, e che è successiva all'uscita del libro: circa un anno fa a
Z. è stato assegnato il Premio Fermi, istituito dalla Società
Italiana di Fisica in occasione del centenario fermiano, e destinato a un
socio che abbia onorato la Fisica con le sue scoperte. La commissione
giudicatrice era presieduta dal Presidente della SIF e composta da
rappresentanti dei massimi Enti scientifici nazionali. Forse questo dimostra
solo che la "cultura atea" non è più così
dominante?
Non posso resistere: debbo darvi un esempio
di ciò che Z. definirebbe "cultura atea", anche se risale a
un secolo fa.
La scienza non pretende di essere una concezione del mondo compiuta e
definitiva, ma ha consapevolezza di preparare una tal concezione. La
più alta filosofia a cui uno scienziato possa aderire consiste
nell'accettare una visione del mondo non completa a preferenza di un'altra,
perfetta in apparenza ma insufficiente in realtà. Le opinioni religiose
degli uomini sono un fatto strettamente privato, fino a quando essi non
cerchino d'imporle ad altri, o non le applichino a questioni che appartengono
a un'altra sfera. Gli stessi uomini di scienza hanno su questo argomento
opinioni molto diverse, a seconda della profondità delle loro vedute e
della capacità di valutarne le conseguenze.
La scienza non domanda nulla su ciò che non può essere oggetto
di ricerca esatta o non lo è ancora. Domini oggi preclusi potranno
esserle aperti in futuro, poiché nessun uomo di sano giudizio, onesto
verso se stesso e verso gli altri, esiterà a sostituire
all'
opinione sui fatti la
conoscenza di questi fatti.
La società attuale è spesso inquieta e cambia frequentemente,
secondo l'impressione e la situazione del momento, i suoi punti di vista, con
il risultato di creare profondi turbamenti morali. Questo fatto è una
conseguenza naturale e necessaria dell'incompletezza e quindi della continua
trasformazione delle sue idee. Una compiuta concezione del mondo non ci
è stata data, ma dobbiamo conquistarla. Solo se sarà concessa
libertà all'esperienza e alla ragione in quei campi in cui esse sole
sono in grado di giudicare, potremo, come speriamo per il bene
dell'umanità, avvicinarci lentamente ma sicuramente a una concezione
unitaria del mondo, conforme alla tendenza economica della sana ragione.
Chi l'ha scritto? Ernst Mach: lo trovate a
pag. 456 della sua Meccanica
(ed.
Boringhieri 1977). Capite ora perché Z. lo mette nel girone dei
"non galileiani"? Non è questione di atomi!
| * * * |
Vi sembra possibile che in un libro dedicato a
G. non si parli del processo? Ebbene è così, o quasi. Troviamo
solo pochi cenni:
Il cardinale Francesco Barberini era uno dei tre Cardinali che
rifiutarono di firmare la condanna dell'Inquisizione inflitta a Galileo
Galilei nel 1616.
(pag. 77)
A parte la confusione di date (la condanna
è del 1633: nel 1616 venne vietato il De revolutionibus
di Copernico, ma senza coinvolgere direttamente G.)
è vero che tre cardinali non firmarono, ma altri sette sì.
Questo Z. non lo ricorda, come non ricorda che fino alla morte G. fu
sottoposto ad arresti domiciliari, impedito di vedere amici e allievi se non
sotto sorveglianza; che i Discorsi
-
secondo Z. l'opera somma di G. - furono stampati a Leida, in Olanda: paese
protestante, quindi non soggetto all'autorità della Chiesa di Roma.
I veri nemici di Galilei furono la filosofia aristotelica e i fanatici
dell'
"ipse dixit", non la
Chiesa né la Bibbia e il suo Dio.
(pag. 103)
Non furono però gli aristotelici
delle università a pronunciare la condanna...
Galilei fece tutto il possibile per impedire alla Chiesa un passo
falso
[...] secondo gli esponenti della
cultura dominante, Galilei voleva convincere la Chiesa ad adottare il sistema
copernicano nel quale lui credeva
[...]
Galilei non mise mai in dubbio il diritto della Chiesa a intervenire, ma
voleva convincerla a non ricorrere all'autorità delle Scritture per
difendere teorie astronomiche che di religioso non avevano assolutamente
nulla.
(pag. 81-83).
Non più di quattro pagine in tutto:
per Z. l'argomento non è poi così importante come lo è
per la "cultura dominante" di tutto il mondo... Perciò
conviene anche a noi occuparci d'altro.
| * * * |
In un libro di oltre 500 pagine ci sono
anche altre cose, di cui non ho potuto parlare, e che mi limito ad accennare
per informazione di chi mi legge. C'è un'energica difesa della scienza,
intesa come intrinsecamente buona, e contrapposta alla tecnica e a tutte le
applicazioni. Z. afferma che tutti i mali prodotti dalla scienza sono in
realtà delle sue applicazioni, e gli scienziati non ne sono
responsabili. Elenca invece le promesse di benefici per l'umanità che
possono derivare da un retto uso della scienza.
Tanto per cambiare, secondo me le cose sono
un po' più complicate di come Z. le presenta. È vero che
esistono oggi correnti antiscientifiche (che non hanno però niente a
che vedere con la "cultura atea", anzi spesso sono d'ispirazione
religiosa) che tendono anche a mettere in discussione la scienza in quanto
tale, senza fare troppe distinzioni. Ma non si può neppure chiudere gli
occhi davanti ai problemi che nascono per il solo fatto che la scienza ci ha
portati a certi livelli di conoscenza. Non voglio dire di più,
perché il tema è sterminato e ci porterebbe lontano dal libro di
Z.; al quale rimprovero, al solito, un atteggiamento del tutto acritico.
Un altro tema che sta a cuore a Z., e che
del resto è vicino al tema centrale, è il rapporto tra scienza e
fede. Qui Z. polemizza duramente con coloro che contrappongono fede e ragione,
e rivendica invece l'unione simboleggiata dal titolo dell'enciclica papale
Fides et Ratio.
Si potrebbe dire che ha
tutto il diritto di esprimere le sue idee, se non fosse per ciò che
scriveva Mach un secolo fa, e che vi invito a rileggere... Di più: Z.
propugna una Grande Alleanza (come al solito, le maiuscole si sprecano):
Nella Grande Alleanza tra Fede e Ragione sta una forte sorgente di
speranza affinché nel mondo possano essere sconfitti coloro che
disprezzano sia la Fede sia la Ragione. Il Professor Abdus Salam, pur essendo
di religione islamica, amava il Papa ed era convinto che il futuro del mondo
doveva reggersi su una Grande Alleanza tra Fede e Ragione e che la Scienza
avrebbe dovuto essere insegnata dagli altari.
(pag. 409)
Purtroppo Salam è morto, e non
possiamo chiedergli se davvero ha detto questo. A me sembra un bel programma
d'intolleranza confessionale. Che Z. la pensi così, ci sono pochi
dubbi. Che pretenda di tirare dalla sua parte Galileo, non mi piace
affatto.
| * * * |
Arrivato in fondo a questo faticoso
resoconto, dovrei rispondere all'ovvia domanda: "Ci hai detto all'inizio
che questo era un libro a tesi, e la tesi è che G. è stato il
vero solo unico fondatore della scienza in quanto credente.
È dimostrata questa tesi?" Come ho
già scritto, qui non ci sono ragionamenti, quindi non ci possono essere
dimostrazioni. Ci sono asserzioni, alle quali il lettore deve prestar fede
sulla parola dell'Autore. C'è poi un'abbondanza di citazioni,
soprattutto di G.; e qui un commento è d'obbligo.
Tutti sanno quanto sia delicato l'uso delle
citazioni: possono essere preziose, nel bene e nel male. Voglio dire che
possono aiutare a dar forza agli argomenti, a testimoniare e confermare
asserzioni; ma è anche possibile - e facile - usarle a sproposito, in
buona o in mala fede. Il modo più corrente è quello della
citazione fuori contesto,
con la quale si
può far dire all'autore citato anche l'esatto contrario di ciò
che intendeva.
Ebbene: di questa tecnica Z. fa ampio uso.
Per dimostrarlo occorrerebbe produrre e discutere una buona quantità di
esempi, il che mi è impossibile; invito perciò chi voglia
convincersene a verificare in prima persona. Mi limito qui a un unico caso.
Andiamo a pag. 426:
L'intelligenza del Creatore è la più alta. Ecco
perché se vogliamo sapere com'è fatto il mondo dobbiamo
chiederlo a Lui.
[...] Galilei pensava
che Dio fosse di più alta intelligenza.
Come vedete, siamo proprio alla tesi
centrale: dove cercava G. le risposte ai problemi della scienza? Noi siamo
abituati a dire: nel libro della natura. Ma noi siamo imbevuti della cultura
atea dominante; invece Z. ci vuole dimostrare che G. cerca le risposte nel
Libro del Creatore, e la differenza non è nominalistica. La citazione
che segue sarebbe appunto una delle prove che G. pensava così:
"... tuttavia, quando pure il fatto stesse in altra maniera, nessuna resistenza sarebbe in me di credere alle ragioni che da più alta intelligenza mi venissero addotte ..."
Z. indica luogo e pagina da cui la
citazione è tratta, per cui è facile controllarla, sì che
viene naturale prenderla per buona e basta. Ma se un diavoletto scettico vi
sussurra all'orecchio ... potete scoprire che la cosa è un po'
diversa.
Siamo nel Dialogo,
e si sta discutendo delle dimensioni del sistema solare e delle
distanze delle stelle. Simplicio ha fatto la seguente obiezione:
... ma non deviamo ammettere, nessuna cosa esser stata creata in vano ed esser oziosa nell'universo; ora, mentre che noi veggiamo questo bell'ordine di pianeti, disposti intorno alla Terra in distanze proporzionate al produrre sopra di quella suoi effetti per benefizio nostro, a che fine interpor di poi tra l'orbe supremo di Saturno e la sfera stellata uno spazio vastissimo senza stella alcuna, superfluo e vano? a che fine? per comodo ed utile di chi?
A questo replica Salviati, con una pagina
di discorso che non posso citare per intero, ma non posso neppure tagliare
troppo, se vogliamo capire:
Troppo mi par che ci arroghiamo, signor Simplicio, mentre vogliamo che
la sola cura di noi sia l'opera adequata ed il termine oltre al quale la
divina sapienza e potenza niuna altra cosa faccia o disponga;
[...] esempio
[...] del lume del Sole, il quale, mentre attrae quei vapori o riscalda
quella pianta, gli attrae e la riscalda in modo, come se altro non avesse che
fare; anzi nel maturar quel grappolo d'uva, anzi un granello solo, vi si
applica che più efficacemente applicar non vi si potrebbe quando il
termine di tutti i suoi affari fusse la sola maturazione di quel grano. Ora,
se questo grano riceve dal Sole tutto quello che ricever si
può,
[...] d'invidia o di
stoltizia sarebbe da incolpar quel grano, quando e' credesse o chiedesse che
nel suo pro' solamente s'impiegasse l'azione dei raggi solari. Son certo che
niente si lascia indietro dalla divina Providenza di quello che si aspetta nel
governo delle cose umane; ma che non possano essere altre cose nell'universo
dependenti dall'infinita sua sapienza, non potrei per me stesso, per quanto mi
detta il mio discorso, accomodarmi a crederlo;
[qui è inserito il brano citato da Z.]
In tanto, quando mi vien detto che sarebbe inutile e vano un immenso
spazio intraposto tra gli orbi de i pianeti e la sfera stellata,
[...] dico che è temerità voler far
giudice il nostro debolissimo discorso delle opere di Dio, e chiamar vano o
superfluo tutto quello dell'universo che non serve per noi.
In primo luogo c'è da notare la
"laicità" del paragone che G. propone, tra il chicco d'uva e
l'umanità: il mondo non è fatto a esclusivo beneficio dell'uomo,
che non può essere il metro di tutte le cose. Quindi mi sembra chiaro
che cosa intenda G. quando parla di "ragioni che da più alta
intelligenza mi venissero addotte". Dice: secondo me non si deve
giudicare inutile ciò di cui non vediamo un utile per noi; ma se poi
qualcuno "più in alto" (come intelligenza o forse come
autorità) mi porta altre ragioni, non farò resistenza. Che cosa
c'entri l'interpretazione che ne dà Z., lo sa soltanto lui...
| * * * |
Siamo veramente alla fine, e voglio
chiudere con un commento di altro genere. A parte tutto quello che ho detto,
ciò che profondamente mi disturba in questo libro è che vi viene
dipinto un Galileo per me irriconoscibile.
Dov'è l'ingegno acuto, il polemista
imbattibile, la lingua tagliente (da buon toscano)? Dov'è lo spirito
laico, che non accetta nessuna autorità che non sia quella delle
"sensate esperienze" e delle "certe dimostrazioni"?
Dove il pensatore profondo e al tempo
stesso attaccato alla concreta realtà e all'esperienza che da questa si
raccoglie? "Largo campo di filosofare parmi che porga [...] la frequente
pratica del famoso arsenale [dove sono] numero grande d'artefici, tra i quali
[...] è forza che ve ne siano di peritissimo discorso".
(Discorsi,
inizio della giornata
prima).
Dov'è lo scienziato vivo, che nella
sua ricerca apre nuove strade e commette anche errori, che impara da chi l'ha
preceduto ed è maestro di chi lo seguirà? Che si piega ai
potenti, e al tempo stesso è ben cosciente del suo valore?
... ahimé, Signor mio, il Galileo, vostro caro amico e servitore,
è fatto irreparabilmente da un mese in qua del tutto cieco. Or pensi
V.S. in qual afflizione io mi ritrovo, mentre che vo considerando che quel
cielo, quel mondo e quello universo che io con mie meravigliose osservazioni e
chiare dimostrazioni avevo ampliato per cento e mille volte, più del
comunemente veduto da' sapienti di tutti i secoli passati, ora per me
s'è sì diminuito e ristretto, ch'e' non è maggiore di
quel che occupa la persona mia...
(lettera a
Elia Diodati in Parigi, 2 gennaio 1638).
No: qui abbiamo un Galileo impagliato, un
fantoccio al quale un autore ventriloquo fa dire quello che vuole. Per dirla
con Eduardo, "nun me piace"...
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