Sono ormai diversi anni che le
novità scientifiche vengono diffuse dai mezzi di comunicazione prima
che dai canali tradizionali della comunità scientifica: riviste,
congressi, più di recente Internet... Questo non può che far
piacere a chi sia desideroso di tenersi aggiornato; ma presenta anche diversi
inconvenienti.
Il primo è la sovrasemplificazione
inevitabile (e come ho già detto, secondo me non sempre in buona fede).
Non è possibile dare la notizia in forma adatta a un grande pubblico,
spiegandone correttamente il significato, il quadro delle conoscenze in cui
s'inserisce, in che cosa modifica o conferma le conoscenze precedenti, ecc.
È inoltre quasi impossibile descrivere
tutte le cautele critiche e possibili interpretazioni che sono necessarie nel
valutare un risultato scientifico, tanto più se "fresco", ossia non
ancora assoggettato al vaglio degli esperti.
C'è poi la tendenza giornalistica, ma
temo anche dei protagonisti della ricerca, a rendere l'evento più
sensazionale, sia attenuando o sopprimendo del tutto le cautele che dicevo,
sia esagerando l'importanza e/o l'attendibilità dei risultati
raggiunti.
Il caso dell'esperimento
"Boomerang" ha mostrato tutte queste caratteristiche. Si sono
presentate delle immagini senza darne alcuna spiegazione, ma descrivendole
come "fotografie del big bang"; si è asserito che le misure
davano la prova che l'Universo è piatto, senza naturalmente chiarire
che cosa ciò significhi, né tanto meno fare il minimo cenno alle
incertezze sperimentali... E si potrebbe continuare...
È ovvio che se si vanno a leggere gli
articoli originali, o si ascoltano i risultati dalla viva voce degli autori, i
discorsi che si sentono sono alquanto diversi, e si capisce: quando un
ricercatore parla a colleghi deve stare ben attento a non uscire dai canoni
della comunicazione scientifica. Ma se le notizie apparse nei mass media erano
così diverse, sarà proprio tutta colpa dei giornalisti? Io non
credo. Dopo tutto, quei giornalisti non hanno inventato: avranno estratto le
frasi che ritenevano più d'effetto, ma la loro fonte erano le
conferenze-stampa e i comunicati dei ricercatori...
Sia chiaro: quello che ho citato è solo
l'ultimo esempio, ma non è affatto l'unico. Sempre restando nella
cosmologia, poco più di un anno fa (mi pare) si era molto parlato
dell'Universo che "accelera l'espansione"; e anche a quel proposito
potrei ripetere le stesse cose. Sono sicuro che in futuro ne sentiremo altre,
e certamente non solo nella cosmologia.
Ora il mio compito è cercare di
rimettere un po' le cose a posto, ossia dare un'idea più vicina
alla realtà scientifica di che cosa è stato realmente visto, e
di che cosa significa. Voglio anche mettere in chiaro perché si discute
e si ricerca su queste cose, e quali sono le difficoltà della ricerca.
Scusate se è poco...
Il metodo allora in uso per misurare la
distanza di galassie non troppo lontane, era quello di cercare nella galassia
un certo tipo di stelle variabili, dette "cefeidi". La virtù
delle cefeidi è di essere variabili "regolari", ossia di
aumentare e diminuire luminosità con un ciclo periodico assai preciso
(si parla di alcuni giorni). Ma non solo: si era scoperto, già molti
anni prima, che il periodo di variabilità di una cefeide era
strettamente correlato alla sua luminosità intrinseca. Le cefeidi
più luminose erano quelle con periodo più lungo, e la relazione
era stata ben studiata, non sto a dire come.
Perciò una volta scoperta, in una certa
galassia, qualche cefeide, la misura del periodo era facile; ne seguiva la
conoscenza della luminosità intrinseca. Si poteva d'altra parte
misurare la luminosità apparente (termine improprio: gli astronomi
parlano di "magnitudine apparente", ma possiamo contentarci) e in
questo modo risalire alla distanza, perché a parità di
luminosità intrinseca la stella appare tanto più debole quanto
più è lontana.
Dunque: galassia, cefeidi, periodo. Dal
periodo si arriva alla luninosità assoluta, quindi alla distanza della
galassia. Misurato a parte il redshift, e ripetuta l'operazione per varie
galassie, si aveva la relazione distanza-redshift, ossia la legge di Hubble
con la sua costante. Semplice, no?
Allora, dov'era l'errore? Stava nel fatto che non si sapeva allora che accanto alle "cefeidi classiche" esisteva un'altra classe di variabili regolari, che vennero poi chiamate "cefeidi di tipo II". Pur avendo anch'esse una relazione fra periodo e luminosità simile a quella delle cefeidi di tipo I, sono molto meno luminose a parità di periodo. Risultato: se si scambia una cefeide di tipo II per una di tipo I, la si crede più luminosa di quello che è; dato che la si vede debole, si attribuisce questo a una maggior distanza. E così la costante di Hubble riusciva sbagliata per eccesso, per un fattore 5 o più.
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